La vicenda è accaduta alla nota
guida alpina
Cesare Maestri e all’amico Luciano Eccher
nell’estate del 1954 sul Campanil Basso di Brenta.
Dino Buzzati, settembre 1929
Dino Buzzati,
Cadin della Neve, settembre1929
L'amore per la montagna e
in particolar modo per le Dolomiti
entra in Dino Buzzati fin dall'adolescenza:
Montagne! Che siete belle, purissime nelle albe violacee.
Frementi negli arrossati tramonti.
Vorrei stare tra i giganti - i giganti di roccia - che vanno nel
cielo […].
Siete belle, montagne, siete la cosa più pura, più
sublime.
Io vorrei stare tra voi nei dorati tramonti di sole,
quando tutto si tinge di rosso.
Io vorrei stare nelle albe azzurrine e velate
da La canzone delle
montagne,1920
Cesare Maestri (foto Pedrotti) |
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TAGLIA,
TAGLIA,
CHE ALMENO TU TI SALVI
di Dino Buzzati
Questa è la storia di una delle avventure più
paurose che ricordi l’alpinismo dolomitico. È accaduta
questa estate [1954, N.d.R.] sul Campanile Basso di Brenta,
picco finissimo per il meraviglioso slancio della sua architettura
e la difficoltà delle numerose vie di salita. Bellissimo
da ogni versante, da ogni versante è stato attaccato
e vinto. Ormai non ha più una parete, spigolo, fessura,
strapiombo dove non sia passato uomo. La via normale, di quarto
grado, è già una scalata rispettabile. Tutte le
altre sono difficili.
Alcune toccano il massimo limite delle possibilità cioè
il sesto grado. Di sesto grado è appunto il vertiginoso
itinerario tracciato da Marco Franceschini e Stenico sullo spigolo
Nord-Ovest del cosiddetto Spallone, del Campanile. È
un impressionante pilastro giallo che balza dalle ghiaie per
370 metri protendendo in fuori i baldacchini di terribili strapiombi.
Ne volle rifare la scalata, due mesi fa, la guida Cesare Maestri
con l’amico Luciano Eccher, di 26 anni. Benché
estremamente difficile, l’impresa non era troppo preoccupante
per Maestri che ne aveva fatte anche di peggio e per di più
da solo, con prodigi di coraggio e di raffinati acrobatismi.
In quanto a Eccher, era un compagno degno dì lui e affiatatissimo.
Difatti, pur avendo deviato dalla via originale e incontrato
ostacoli anche maggiori, i due superarono brillantemente i primi
170 metri, che sono i più duri. Verso sera Maestri, dopo
una delicatissima traversata sull’orlo di uno strapiombo
spaventoso, approdò a un piccolo ma sicuro terrazzino.
Gli restavano sì ancora 200 metri di parete, ma assai
meno impegnativi. La vittoria per così dire, era già
in tasca. Meno male, perché la notte stava avvicinandosi
e si era messo a nevicare. Maestri piantò tre chiodi
assicurandovi la corda e poi disse al compagno di venire.
Eccher compì la traversata e giunse quasi al terrazzino.
Maestri, che via via ritirava la corda, vide spuntare la
sua testa, e lo calcolava già al sicuro quando fulmineamente
il fatto accadde. “Luciano mi guardava sorridendo, - racconta
Maestri, - ma all’improvviso ha fatto una curiosa smorfia
come se fosse seccato, poi è sparito sotto.”
Nei punti più difficili, dove mancano gli appigli e specialmente
sugli strapiombi quando la roccia viene in
fuori, gli alpinisti non solo piantano chiodi per poter procedere
ma talora a questi chiodi fissano delle staffe
per appoggiarvi i piedi. Eccher si sosteneva appunto a una staffa
con tutto il peso quando il chiodo si staccò. Le mani
non avevano presa sufficiente. Fece un volo.
Di sotto non c’era che il vuoto. Il terrazzino infatti
rappresentava l’orlo di un tetto che sporgeva in fuori
per alcuni metri. Eccher è tutt’altro che un pancione
ma i suoi 70 chili nessuno glieli leva. Lo strappo fu tale da
fare saltar via un secondo chiodo poco sopra la staffa e poi
un terzo proprio quello su cui Maestri stava “facendo
assicurazione”. Partiti i tre chiodi (ne restavano altri
due sopra il terrazzino ma vi era fissato il capo opposto della
corda, quello dalla parte di Maestri) il peso del corpo proiettato
nel vuoto si sfogò tutto sulla spalla e sulle braccia
della guida. Fu uno strattone tremendo. Maestri ne restò
letteralmente piegato in due e andò a sbattere con la
faccia sulle rocce. Nonostante il dolore tenne con tutte le
sue forze. Accartocciato quasi a testa in giù sull’aereo
terrazzino, semiaccecato dal sangue che gli grondava dalla fronte,
le braccia convulsamente strette a trattenere la corda, Maestri
per qualche istante si sentì perduto. Poi a poco a poco
si riebbe.
«Luciano, Luciano, come va?»
“Bene, bene.” Rispose dal basso l’invisibile
compagno con straordinario spirito. “Sei giù molto?”
“Saranno 5 metri.”
“E puoi toccar la roccia?” “Impossibile, è
troppo lontana.” “Allora cerca di venire su a braccia.
Ce la fai?“
“Adesso provo.”
Eccher provò. Ma era un’impresa inverosimile, con
una corda così sottile, dopo quel tremendo colpo.
Riuscì a sollevarsi un paio di metri ma poi le mani mollarono.
Giù di nuovo a piombo. Maestri, in quella sua assurda
posizione, fece di tutto per reggere al secondo strappo. Ma
un bel pezzo di corda gli sfuggì dalle mani.
“Luciano! Luciano!”
“Niente paura. Solo che a venir su a forza di braccia
io non ce la faccio.”
“E adesso quanto sei giù?”
“Adesso saranno 10 metri.”
Un lungo silenzio tra gli alterni mugolii del vento. La neve
veniva giù sempre più fitta. Poi la voce di Maestri:
“Luciano, ho paura che non resisto più.”
“Cesare, – fu la risposta, – taglia la corda
che almeno tu ti salvi!”
Questo poi mai, pensò Maestri.
Con sforzo supremo riuscì a sollevarsi un poco così
da mettersi in ginocchio.
“Cesare! Cesare!” “Cosa c’è?”
“Prova a calarmi per tutto il resto della corda. Forse
riesco a toccare le rocce» (era soltanto un’illusione).
“Aspetta, adesso provo.”
Fu perché Maestri mosse il piede sotto il quale la corda
si era incastrata? Fu perché le sue mani non ressero?
Fatto sta che ad un tratto non riuscì più a tenere.
Udì il sibilo della fune che strisciava a velocità
furiosa sull’orlo del terrazzino, una forza irresistibile
lo succhiava nell’abisso.
Guardò i due chiodi superstiti coi due relativi moschettoni
a cui era fissata con un’asola la corda. Avrebbero tenuto?
Poi venne il colpo. La corda si tese spasmodicamente. I due
chiodi si incurvarono come se fossero di burro, per una minima
frazione di secondo sembrarono schizzar fuori dalla fessura
dove erano infissi. “Adesso volo anch’io”
pensò Maestri. Ma i chiodi miracolosamente resistettero.
Di sotto, Eccher aveva compiuto il terzo volo. Questa volta
fino a completo esaurimento della corda. Un tuffo di altri 20
metri buoni. Precipitando guardò in su. Si sentì
serrare atrocemente in vita. Rimbalzò in su tre metri
almeno. “Impossibile che i chiodi tengano” fu il
pensiero “ora vedo schizzar fuori anche Maestri. Ci sfracelleremo
insieme.” Poi fu una quiete inverosimile. Lentamente Eccher
prese a girare su se stesso. Si chiamarono, cercando di parlarsi.
Ma a quella distanza, più di 30 metri, era difficile.
Intanto si era fatto buio. Maestri, sul quale non gravava più
il peso del compagno, sostenuto ormai dai chiodi, si levò
finalmente in piedi e misurò la situazione. Di tirar
su Eccher a forza di braccia neanche a pensarci. L’unica
tentare di proseguire lui da solo fino alla vetta scendere dalla
parte più facile e andare a chiedere soccorsi. Ma avrebbe
fatto in tempo? Sospeso a una corda per la vita, Eccher avrebbe
resistito? In uguali situazioni, più di un alpinista
era morto per soffocamento. Per fortuna Eccher è un ragazzo
di raro sangue freddo e ottimismo.
Invece di lasciarsi prendere dal panico, si industriò
per rendere il meno tormentoso possibile il suo stato. Si passò
una staffa intorno al torso così da poter appoggiare
la schiena. Altre due staffe le fissò alla corda in modo
da potervi introdurre le gambe e così restar quasi seduto.
Poi si disse: “Se Maestri va a cercar soccorsi, posso
vivere tranquillo.” Mentre contiuava a nevicare, Maestri
slegatosi, gridò a Eccher: “Arrivederci”,
e riprese la salita. Come abbia fatto, con quel buio pesto,
a superare 200 metri di buon quinto grado, per noi resta un
mistero.
Giunto sullo spallone, contornò il Campanile Basso per
la larga cengia battezzata scherzosamente stradone provinciale.
E stava per calarsi lungo la via comune quando, affacciatosi
alla parete Sud, vide giù una luce che avanzava sul sentierino
che porta all’attacco. Chiamò. Era suo fratello
Carlo che, preoccupato del ritardo, era salito dal rifugio Tosa.
“Corri al rifugio, - gli gridò Maestri, - fa venire
su quanti più è possibile con tutte le corde che
ci sono. Ma prima va sotto lo spigolo e avverti Luciano che
i soccorsi arriveranno; che si faccia coraggio!” Infatti
ciò che più temeva era che l’amico si lasciasse
vincere dalla stanchezza e dallo scoraggiamento; nel qual caso
sarebbe stato perduto.
Ora non restava che aspettare. Maestri riuscì a scovare
sulla cengia un buco abbastanza riparato e, meraviglioso
esempio di equilibrio nervoso, ci fece una bella dormita: ciò
che era la cosa piu opportuna dopo il travaglio sofferto e in
vista di quello che gli restava da soffrire.
Alle 2,30 di notte le guide Bruno e Catullo Detassis e Giulio
della Giacoma con tre bravi rocciatori, Mario Fabbri di Trento,
Dado Morandi e un altro di Roma, erano sullo stradone provinciale.
Al lume incerto delle torce elettriche, dalla sommità
dello spallone, Maestri, Catullo Detassis e Morandi furono calati
per 110 metri. Maestri e Detassis scesero quindi per loro conto
a corde doppie fin sopra il terrazzino, piantarono una bella
quantità di chiodi e calarono subito a Eccher due corde,
per mezzo delle quali, a trazione alterna, cominciarono a tirarlo
su. A ogni strattone guadagnavano una ventina di centimetri.
Il sollevamento durò tre ore e mezzo. Alle 9 del mattino
finalmente Eccher toccò il terrazzino. Era pallido come
la morte, ma ancora in buone condizioni. “Fa un curioso
effetto – disse – rimettere i piedi sulla terra”.
Era rimasto appeso nel vuoto, in maniche di camicia, con un
tempo da lupi, 13 ore giuste.
Tratto da: Cronache Terrestri,
“Corriere della Sera”, 1954
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