giugno 2013
Numero 13

UN GALLO TRA I FIORI

Sonia Sbolzani

 

Francesco Guardi image

Non si è ancora spenta l’eco delle celebrazioni per i 300 anni dalla nascita di Francesco Guardi (1712-1793), il grande artista veneziano, ma di origine trentina (figlio del pittore Domenico nativo di Mastellina in Val di Sole), considerato uno dei protagonisti della pittura settecentesca in Laguna. Obliato per molti anni dopo la morte - complice la dominanza del gusto neoclassico - il Guardi venne riscoperto solo a metà ‘800 e, a conferma del detto “nemo propheta in patria”, la sua rivalutazione partì da una Parigi eccitata dal ritorno in auge del rococò, dove il critico Charles Yriarte arrivò a definirlo “molto più vivo del Canaletto”.
In effetti Francesco Guardi ebbe il merito di rielaborare “sentimentalmente” il genere della veduta spostando l’ottica verso un registro più soggettivo, poetico, fremente, come dimostrano le sue pennellate guizzanti e meno nitide di quelle del medesimo Canaletto, nonché più attente ai rapporti cromatici tra gli elementi della composizione. Oggi i massimi musei mondiali - dal Louvre all’Hermitage, dalla National Gallery di Londra al Metropolitan di New York - oltre alle istituzioni veneziane, conservano sue vedute e capricci.

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In occasione dell’importante anniversario guardesco il Museo Correr di Venezia ed il Castello del Buonconsiglio di Trento (grazie alla proficua collaborazione tra la Fondazione Musei Civici di Venezia e la Soprintendenza per i Beni Storico-Artistici della Provincia Autonoma di Trento, col supporto di vari sponsor e l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica) hanno ospitato due mostre parallele e simultanee, concluse il 6 Gennaio scorso, che hanno inteso illustrare in modo esaustivo l’originale produzione del pittore tridentino, anche in relazione agli artisti del suo tempo, a cominciare dai membri della famiglia. La sua formazione, infatti, ebbe luogo presso l’atelier domestico, dove operavano il padre Domenico ed i fratelli Nicolò e soprattutto Gian Antonio.
La retrospettiva lagunare, curata da Alberto Craievich e Filippo Pedrocco (con la direzione scientifica di Gabriella Belli), pur senza apportare sostanziali novità, si è autorevolmente inserita nel solco della tradizione proponendo un itinerario sia cronologico sia tematico attraverso 121 opere (tra dipinti e disegni) selezionate per valore storico e qualitativo nell’ambito di un repertorio quanto mai ampio ed assortito, che spazia dalle opere giovanili di figura (prevalentemente ispirate alla pittura di costume di cui era apicale interprete Pietro Longhi) ai dipinti sacri, dai paesaggi e capricci alle sontuose vedute degli anni della maturità, che denotano uno stile sempre più allusivo, personale, autonomo dagli altri maestri veneti coevi usi a ritrarre la vita mondana della Serenissima.
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Ci è sembrata più particolare ed originale, benché di dimensioni minori, la rassegna a Trento, che ha voluto approfondire tematicamente le opere giovanili del Guardi, adottando come titolo “Francesco Guardi nella terra degli avi. Dipinti di figura e capricci floreali” (curatore della mostra e del catalogo: Elvio Mich, con saggi e schede di Gianluca e Ulisse Bocchi, Silvia Proni, Salvatore Ferrari, Francesca de Gramatica, Stefano Volpin, Roberto Perini, Cristino Gervasi, Davide Bussolari). Tale mostra, nella fattispecie, ha permesso di illustrare alcuni aspetti inediti della pittura sacra e di figure, ma soprattutto delle nature morte del Guardi.
Al Castello del Buonconsiglio si è effettivamente evidenziata la peculiare relazione tra Guardi e il Trentino, potendosi ivi ammirare le restaurate lunette con l’Apparizione dell’angelo a San Francesco d’Assisi e la Lavanda dei piedi della sagrestia della parrocchiale di Vigo di Ton, la pala dei Santi Pietro e Paolo della parrocchiale di Roncegno (1775), un Santo in adorazione dell’Eucarestia (San Norberto) di Castel Thun (firmato sul verso) e un’Ultima Cena che apparteneva alle collezioni dello stesso Castel Thun.
In particolare nelle lunette di Vigo, eseguite da Francesco nel 1738 in collaborazione con il fratello maggiore Gian Antonio, emerge per la prima volta un importante filone della produzione di Francesco, a lungo dibattuto dalla critica, ovvero la realizzazione di nature morte floreali che innovano i modelli delle composizioni vegetali di Margherita Caffi ed Elisabetta Marchioni, innalzandoli ad una delle più alte espressioni del genere. Questo campo di attività incontrò un crescente successo di pubblico nel corso del Settecento, ma a fronte della notevole operosità della bottega (nonché degli innumerevoli imitatori), le nature morte riconducibili con sicurezza alla mano di Francesco Guardi appaiono davvero poche.

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In mostra a Trento sono state esposte alcune nature morte siglate “FG”, che raffigurano composizioni floreali tali da far luce pressoché definitiva sulla comprensione della genesi della pittura di fiori guardesca ed a configurarla come genere autonomo, caratterizzato da coerenza stilistica all’insegna di estro inventivo, mezzi toni cromatici, guizzi luministici che conferiscono concretezza e anima alla flora, in un’armonica sinfonia che dischiude sinestesie molteplici, dove quasi sembra di percepire note musicali.
Il fortunato ritrovamento in una collezione privata di una coppia di tele dove compare su un vaso la veridica firma “FG” ha consentito di dimostrare i legami con la sopra citata pittura secentesca di Margherita Caffi, artista che godeva ottima reputazione presso i collezionisti veneziani (si noti la deliziosa pittura di tocco e di macchia mutuata da lei e poi tradotta in chiave rococò con vaporoso brio e tenera giocosità, seppure tutt’altro che scevra di matericità, contraddistinta anzi da tratti sicuri e decisi).

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Nella terra degli avi è dunque presente uno dei nuclei più importanti e universalmente noti di un sommo interprete della pittura veneziana del Settecento.
La ricorrenza del terzo centenario della nascita di Francesco Guardi ha offerto al pubblico la straordinaria opportunità di ammirare una serie di capolavori che in alcuni casi sono stati oggetto di interventi di restauro e di indagini tecnico-scientifiche a cura della Soprintendenza trentina per i Beni Storico-Artistici, cosicché la mostra al Castello del Buonconsiglio, apportando nuove conoscenze alla produzione guardesca locale, si è idealmente ricollegata alla storica esposizione del 1949, organizzata a Trento da Giuseppe Fiocco e Rodolfo Pallucchini, e a quella allestita a Castel Caldes nel 1993 per le celebrazioni del secondo centenario della morte del pittore, con catalogo a cura di G. Romanelli, A. Dorigato, E. Mich.

Francesco Guardi imageMa in che modo Francesco Guardi divenne uno dei più importanti maestri del vedutismo veneziano settecentesco?
La famiglia Guardi giunse a Venezia da Vienna, dove Domenico, il padre di Francesco, si era recato nel 1690 per studiare pittura presso l’accademia dei fratelli Strudel. Dopo il matrimonio e la nascita del primogenito Gian Antonio (1699-1760), la famiglia Guardi si era stabilita definitivamente in Laguna. La prima notizia dell’attività di Francesco si riferisce a una serie di copie da dipinti antichi, eseguite nel 1731 assieme a Gian Antonio per la nobile famiglia Giovanelli. Dopo le prime esperienze comuni nell’ambito della bottega familiare, le carriere dei due fratelli presero direzioni distinte: mentre Gian Antonio continuò a dedicarsi, con esiti degnissimi, alla pittura di figura, Francesco si orientò, sull’esempio di Canaletto, al vedutismo, genere di più larga fortuna, che riuscì ad interpretare con forte personalità, eclissando per lungo tempo la fama del congiunto. Il legame con il Trentino rimase comunque vivo: fu infatti lo zio don Pietro Antonio Guardi, parroco di Vigo di Ton, a commissionare alcuni dipinti a soggetto sacro ai due nipoti.

Concludiamo questo articolo con l’intervista che ci ha gentilmente concesso lo studioso d’arte Gianluca Bocchi, specialista delle nature morte guardesche ed in quanto tale co-autore dei testi del catalogo della mostra al Castello del Buonconsiglio. Nel 1993 Gianluca e Ulisse Bocchi individuarono a Stoccolma in un dipinto anonimo – “Fiori all’aperto e in un cesto con un gallo” - la paternità di Francesco Guardi, confermata poi dalla scoperta della firma originale, cosicché quel quadro può ritenersi il sicuro prototipo dell’arte floreale dell’autore trentin-veneziano.

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Quali sono i caratteri distintivi della pittura di fiori di Francesco Guardi?
Francesco Guardi è figlio della sua epoca, la sua flora è pienamente rococò, fatta di guizzi, svolazzi e ricercati virtuosismi del pennello. Dobbiamo anche necessariamente rimarcare che tutta la sua produzione, dal figurativo alla veduta, dal capriccio paesistico a quello floreale, risente di una formazione comune a quella del fratello, basata sull’imitazione di modelli contemporanei e precedenti. Per dirla con un termine che può apparire squalificante, furono a lungo dei pittori copisti prima di dar libero sfogo alle rispettive, ineguagliate capacità individuali. Questo imprinting culturale ne condizionò a lungo la produzione, fenomeno che ci consegna oggi la figura di un artista in grado di rielaborare con straordinaria personalità temi di altri, sino a stravolgerne i contenuti e lo spirito in una visione assolutamente peculiare. Egli fu quindi un eccezionale innovatore di modelli altrui: così come è lecito ricercare nelle sue vedute gli esempi canalettiani e nei capricci quelli di Marco Ricci e del Carlevaris, nelle nature morte dobbiamo rifarci a modelli secenteschi, di cui recupera sia gli elementi vasari, sia le tenebrose ambientazioni da cui fuoriescono con la medesima grazia fiori di campo, fiori da giardino e inesistenti varianti botaniche giocate su sgargianti tonalità rosse, gialle e blu.
Come lei lascia intendere nel titolo di questo articolo, appare curioso l’inserto del gallo tra i fiori, anche per la moda rocaille, che generalmente preferisce piccoli uccelli o leggiadri pappagalli. Ma il motivo di questa scelta singolare mi resta ancora oscuro.

Lei è tra i principali studiosi che hanno scoperto e valorizzato il Guardi come autore di nature morte. Come è nato il suo interesse per questo artista e come è giunto a definire questo filone di genere nella sua opera?
L’interesse che io e mio padre abbiamo sempre coltivato è stato per il “genere” natura morta nel suo complesso e non è mai stato circoscritto alla conoscenza di singoli artisti o di specifiche scuole. I convenzionali schematismi territoriali che da sempre caratterizzano gli studi della storia dell’arte sono di grande utilità per comprendere a fondo le mode, gli stili, le botteghe di determinati centri artistici e culturali (Roma, Firenze, Napoli, Bologna, Venezia) in epoche ben stabilite.
Il punto di vista dell’esperto di “genere” mira invece a fare tesoro di tali differenti risultati e a confrontarli tra di loro individuando convergenze e divergenze, influenze reciproche o a senso unico, similitudini e unicità in un panorama geografico e storico il più possibile allargato.
Ritengo che grandi studiosi di Francesco Guardi del XX secolo, cito per tutti Giuseppe Fiocco e Antonio Morassi, pur avendone molto acutamente intuito e poi cercato di dimostrare l’attività nella pittura floreale, non riuscirono a capirne la vera essenza per il mancato ritrovamento di opere siglate o firmate, ma anche per un approccio troppo “veneziano” alla materia, che sostanzialmente prescindeva dalla conoscenza degli altri specialisti di naturalia attivi dentro e fuori dalla Serenissima.

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Attualmente quante nature morte attribuibili con certezza al Guardi sono note?
Il ventennio trascorso fra il ritrovamento della prima tela firmata e la realizzazione di questa mostra è stato improntato a una metodica ricerca di dipinti che potessero evidenziare le medesime caratteristiche stilistiche del modello di riferimento. L’indagine ha interessato in prima istanza gli archivi fotografici degli studiosi che nel secolo scorso si erano occupati della problematica floreale guardesca, poi è stata estesa alle opere comparse sul mercato internazionale, sia quelle presenti nei cataloghi delle aste, sia quelle reperibili nelle pubblicazioni delle mostre antiquariali e delle gallerie d’arte. Le novità più interessanti sono venute tuttavia dalle segnalazioni del collezionismo privato. Nulla dal patrimonio museale, ma la cosa non stupisce, se solo si considera l’originaria destinazione decorativa di questi dipinti.
Nonostante questa capillare ricerca non è possibile, al momento, aggiungere all’operato di Francesco Guardi altri dipinti di soggetto floreale oltre a quelli esposti in mostra e ai due pubblicati nel saggio. La mia personale opinione, espressa anche nel catalogo, è che questa produzione sia da includere in una fase storica di sperimentazioni pittoriche, iniziata verso la metà degli anni Cinquanta e conclusa con il passaggio definitivo al vedutismo. In quest’ottica diventa difficile ipotizzare un numero rilevante di future, nuove identificazioni di capricci floreali.

Quali sono state le peculiarità della mostra trentina su Francesco Guardi? Lei che contributo vi ha apportato in particolare?
La mostra di Trento si è egregiamente inserita nelle celebrazioni guardesche del 2012: è stato merito degli organizzatori, la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici e il Castello del Buonconsiglio, ideare un’esposizione che valorizzasse l’operato locale di Francesco e Gianantonio Guardi e che al tempo stesso si integrasse senza sovrapposizioni con quella contemporanea allestita al Museo Correr di Venezia.
Da molti anni ero in rapporto di studio, di lavoro e di personale amicizia con Elvio Mich, funzionario della Soprintendenza e curatore della mostra trentina; ottimo conoscitore dell’arte guardesca, Mich era anche perfettamente al corrente del fatto che io e mio padre stavamo chiudendo le ricerche sui capricci floreali di Francesco dopo aver trovato in una collezione privata due tele siglate, da ritenere le opere stilisticamente più antiche, che mi confermavano l’influsso esercitato sulla sua pittura dalla visione dei dipinti della pittrice milanese Margherita Caffi. Si è quindi verificata quella fortunata convergenza di tempi, di studi e di interessi che ha portato alla nascita di questa singolarissima esposizione, certamente la più innovativa e interdisciplinare (si vedano le approfondite ricerche archivistiche dello stesso Mich, le relazioni di restauro di Cristino Gervasi e di Roberto Perini, unite alle indagini chimiche e fisiche di Stefano Volpin, a quelle radiologiche di Davide Bussolari e a quelle botaniche di Maria Silvia Proni) tra quelle proposte in Italia e all’estero sull’artista veneziano.

Personalmente quali ritiene essere i migliori esempi di pittura floreale del Guardi?
Non vorrei apparire vittima di una scontata parzialità, ma il primo dipinto da me ritrovato, “Fiori all’aperto e in un cesto con un gallo”, rimane quello che più mi affascina, non tanto per i risultati formali raggiunti, sostanzialmente equiparabili agli altri, quanto per lo spirito che lo permea.
In questa tela mi pare che la visione sognante di Francesco raggiunga il suo apice: il capriccio floreale, al pari di quello paesistico, diventa un mezzo per estraniarsi da una quotidianità di cui l’artista si sente sempre meno partecipe. Guardi stravolge la realtà con un linguaggio pittorico assolutamente inimitabile e un’ambientazione fantastica, a metà fra terra e mare, dove tutto fluttua senza peso in un silenzio avvolgente.

Quali questioni restano aperte nello studio del Guardi “Fiorante”?
Francesco Guardi imageSostanzialmente quella della possibile esistenza di capricci floreali diversi, non aderenti a quell’unitarietà stilistica da me tanto ricercata sino ad ora, premessa indispensabile per dimostrare l’esistenza di una produzione che ormai da circa trent’anni veniva generalmente negata.
Potrebbe esserne un indizio il dipinto “Trofeo di fiori in un vaso di maiolica a decori orientali con un gallo” che, pur riproponendo stilemi altrove riscontrabili, lo fa con una minuzia, una lenticolarità e una precisione inusitate, ponendosi come scopo principale la perfezione formale.
L’eventuale ritrovamento di altre tele similari, dove il tecnicismo supera e minimizza il peculiare sentimento guardesco, potrebbe smentire la mia opinione di trovarmi di fronte ad un unicum realizzato su espressa richiesta del committente.