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Cos’è quell’indicibile? Ovvero: quel senso di sgomento, di smarrimento che ci coglie ogni qual volta il nostro sguardo indugia sulla forma, sulle gole, nei bordi, sui colori di una montagna? Quella sensazione penetrante che caratterizza – per dirla con Merleau Ponty «quel contatto muto con le cose, quando esse non sono ancora dette», oppure con Paul Guichonnet, «quei fantasmi senza relazione organica con l’ambiente circostante». Scrittori, filosofi, contemplatori hanno provato a descriverlo, a parlarne, dando vita a una vera e propria estetica delle Alpi che, ancor oggi, rappresenta una frontiera sulla speculazione del paesaggio. E, allo stesso tempo, il suggerimento di una nuova, ma sempre antica, dimensione relazionale uomo-natura.
Fino al Rinascimento, se si escludono alcuni passi del divo Omero che aveva definito le montagne «i mostruosi fardelli della terra», e del Petrarca che ne parla ampiamente nella sua celebre descrizione di un escursione sul Monte Ventoso, il tema della montagna era stato quello, inconoscibile, dei ‘luoghi elevati’. Luoghi dai quali l’uomo doveva stare lontano. Forse la casa degli dei, forse la dimora del diavolo e delle streghe, ma comunque un ambito dal quale l’uomo non poteva che stare lontano sia fisicamente che mentalmente.
Leonardo da Vinci, all’alba del Rinascimento, mostra uno spiccato interesse teorico per le montagne: le va ad esplorare di persona, facendosi, in un certo senso, alpinista e ricostruendo poi con il disegno la dimensione contemplativa nell’orizzonte di molte opere. Scriveva in un passo dei ‘Frammenti letterari’: «Dico, l’azzurro in che si mostra l’aria, non essere suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili atomi, la quale piglia dopo sé la percussion de’raggi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio. E questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi, che rigan per quattro aspetti contrari tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la sua base in simile altezza».
Fu però Josua Simler, nel 1576, con la sue splendide descrizioni alpine a fornire nuova luce alla visione dei colossi della terra. Era attratto da «quella immensa mole, spinta cosi in alto è lì da tanti secoli senza cedere e svanire» e di conseguenza «chi non si chiederebbe con stupore su quali fondamenta possa poggiare un simile peso?». Simler scriveva che «la sublimità dei monti merita la nostra più devota contemplazione», poiché in essi, se li osservi nei particolari, «lo sguardo ti penetra di meraviglia e vi troverai un gran numero di cose eccelse e singolari». Konrad Gesner, pochi decenni prima, nel 1541, aveva affermato: «io dichiaro nemico della natura chiunque non giudichi le alte montagne degne di una lunga contemplazione. Certamente le parti più elevate sembrano essere al di là delle condizioni ordinarie e sfuggono alle nostre intemperie, come se facessero parte di un altro mondo».
L’illuminismo tentò di destrutturare l’incantesimo mitico e spettrale che avvolgeva la montagna, svelandola per ciò che era ed è: «una sovrapposizione di strati rocciosi – per dirla con Luis Trenken – dalle più disparate origini, costretta a erigersi in alto sotto la spinta delle energie possenti che sono all’interno della Terra. E in questa montagna svelata si poteva osservare, esplorare, studiare e scalare, per togliere con l’aiuto delle scienze esatte ogni residuo mistero».
Anche durante e dopo il secolo dei lumi, ci fu chi resistette con un atteggiamento contemplativo-estetico, come George Simmel, e chi precedentemente, come Georg F.W. Hegel, nel 1817, non fece a meno di mettere in relazione la montagna allo stato dell’uomo che vive su di essa: «Dubito che anche il teologo più credulo oserebbe qui, su questi monti in genere, attribuire alla Natura stessa di proporsi lo scopo della utilità per l’uomo, che deve invece rubarle quel poco, quella miseria che può utilizzare, che non è mai sicuro di essere schiacciato da pietre o da valanghe durante i suoi miseri furti, mentre sottrae una manciata d’erba, o di non aver distrutta in una notte la faticosa opera delle sue mani, la sua povera capanna e la stalla delle mucche».
«L’impressione che ci fa l’alta montagna è per noi simbolo e presentimento del fatto che la vita si redime, potenziandosi al massimo, in ciò che non entra più nella sua forma, e che piuttosto la sovrasta e le sta di fronte» scriveva Georg Simmel in un saggio dedicato alle ‘Alpi’. Questi, nel 1892, fu uno dei primi a dare alle montagne una voce lirica, dando spessore e respiro mondiale a quelle emozioni che per millenni erano rimaste racchiuse nel duro cuore degli abitanti delle vallate sottostanti. Scriveva ancora: «Quando, come nelle Alpi, le forme vengono messe insieme del tutto casualmente, senza che vi sia una linea globale che le unisca, anche la singola linea non troverebbe la sua collocazione nel complesso e rimarrebbe quindi isolata se non fosse avvertibile la massa della materia che si stende uniforme sotto le cime e trasforma il loro isolamento insensato in un corpo unitario».
Oggi le Alpi, se vorranno sopravvivere alla ‘terribile modernità’ che le vuole legate inscindibilmente dalla dimensione turistico-economica, prigioniere di un rapporto di sfruttamento piuttosto che elevate da una necessità contemplativa e, infine, relegate a sfondo della vanità sportiva dell’uomo, dovranno ritrovare il loro rapporto di teoria e di prassi con l’emozione. L’emozione della contemplazione. La montagna come scenario di rivelazione dell’Io. L’orizzonte montuoso non come contesto di abominevoli azioni, ma come specchio dell’anima. |